Era una tempestosa serata di fine novembre, la pioggia sferzava i tetti degli edifici con estrema violenza e il vento accompagnava le colonne d'acqua come un abile siparista.
Pochi tuoni e quelli che si udivano probabilmente erano frutto di fulmini caduti a molti chilometri da Westport, al confine fra Rhode Island e Massachusetts, sulla costa sud.
L'avvento del 1900 si sarebbe celebrato di lì a un paio d'anni e l'attesa stava facendo crescere in noi una contagiosa euforia: in molti si domandavano cosa sarebbe accaduto, i restanti attendevano con altrettanta impazienza il sopraggiungere del nuovo secolo, tuttavia senza crearsi inutili aspettative.
Tra questi ultimi c'ero anch'io.
Quella sera stavo bevendo whisky alla locanda di Benjamin Roosevelt quando vi fece capolino un tizio mai visto prima: la sua altezza sfiorava senza dubbio i due metri e l'esile corporatura ci fece pensare a un vagabondo in cerca di cibo e ospitalità.
Vestiva una giacca elegante, tanto scura quanto fradicia e reggeva saldamente una grossa valigia color beige, probabilmente più pesante di lui; in testa calzava una buffa bombetta nera e non riuscii a guardarlo in faccia dato che teneva il viso rivolto verso il basso.
La taverna si ammutolì e il rumore della pioggia fece da sottofondo a quella insolita situazione.
“Vi serve qualcosa, signore?”
Domandò gentilmente Ben, strofinando un bicchiere con uno straccio.
Lo straniero non rispose e lasciò cadere la valigia sulle assi di legno con un movimento meccanico della mano; il tonfo fece sobbalzare i tavoli circostanti.
Passarono alcuni istanti, infine l'uomo sollevò lo sguardo e sorridendo iniziò a ballare: dapprima con movimenti lenti e misurati, si spostava di lato come un granchio sul bagnasciuga, poi accelerò il ritmo, aggiungendo movenze alla sua danza.
L'esibizione durò qualche minuto e alla fine, seppur con una marcata timidezza, si levarono in coro applausi di approvazione.
“Una birra, prego!”
Esclamò lo straniero, risollevando da terra il bagaglio, avvicinandosi al bancone.
Io lo osservai mentre mi veniva incontro, con quella sua goffa andatura dovuta al carico che stava trasportando.
“Di dove siete, buon uomo?”
Chiese Ben, versandogli la bevanda.
“Vengo dalla bufera, marinaio!”
Rise, ma non era una risata sincera; sembrava la tipica sghignazzata di un pagliaccio.
Prese il boccale e ne trangugiò il contenuto con avidità, dando l'impressione di non bere da giorni.
“Vivete qui vicino, suppongo. Chi verrebbe mai a bussare alle porte di Westport, con questa violenta tempesta per giunta...”
“Ne gradirei un'altra.”
Disse l'uomo, poggiando il denaro sul banco.
“Esibizione singolare ma...ben riuscita.”
Osservai, senza avergli mai tolto gli occhi di dosso.
Lui si voltò e mi sorrise; in verità, quel ghigno non l'aveva mai perso fin quando l'ho visto danzare.
“Ma che scortese! Non mi sono nemmeno presentato!”
Si diede un leggero schiaffo alla fronte, fingendo di mortificarsi; si chinò e aprì la valigia che con un secco “click!” si divise in due.
“Io sono Orias Newby e questo è il mio fedele compagno di avventure!”
Nel pronunciare queste parole, non mosse di un millimetro le labbra e reggeva in braccio un inquietante pupazzo di legno che, al contrario, sbraitava aprendo e chiudendo la bocca.
“Davvero notevole, signor Newby!”
Esclamò il locandiere, incredulo.
“Piacere mio, signore! Gradirei un bel bicchiere di whisky, quello buono!”
Ordinò il pupazzo, guardandosi intorno senza una logica.
Ben rise divertito, tornando a sciacquare le stoviglie;
“Un bicchiere di whisky, ho detto!”
Tuonò il fantoccio, estraendo dal taschino un piccolo coltello a serramanico.
Feci cenno a Benjamin di versarglielo e lui, con espressione interrogativa, fece come richiesto, avvicinandogli il recipiente.
“Salute!”
Esclamò il pupazzo, afferrandolo e ingurgitando tutto con foga.
“Dev'esserci un trucco” pensai, magari una bottiglia all'interno del fantoccio o una borraccia per immagazzinare i liquidi.
“Da quanto vi esibite, se posso chiedere?”
Domandò Ben, ritirando le stoviglie sporche.
“Da sempre! Ogni paesino merita la nostra presenza!”
“Veramente, parlavo col vostro padrone, signore...”
Disse Benjamin sorridendo; il pupazzo assunse un'aria orribilmente...umana: gli occhi mutarono il taglio e la bocca si serrò in segno di forte disappunto.
Anche l'uomo che lo teneva in grembo non sembrò apprezzare il commento del locandiere e, poco prima di alzarsi e andarsene disse:
“Forse questo villaggio di pescatori non è degno di ospitarci.”
Sistemò Newby nella valigia, unì i due lembi e la richiuse, dopodiché si avviò all'uscita della locanda e scomparve nella pioggia, nella stessa rapidità con la quale era arrivato.
Il brusio che si venne a creare fu principalmente dettato dall'impressione che tutti i presenti, me compreso, avevamo avuto su quei due misteriosi personaggi.
“Ce n'è di gente strana, eh Bob?”
“Puoi dirlo forte Ben, puoi dirlo forte...”
Gli risposi, sorseggiando placidamente la mia birra, mentre un tuono ammoniva la baia, rimbombando tra gli scogli con echi impetuosi.
Restai nella locanda un'altra ora, poi decisi di andarmene: troppo odore di fumo, troppa gente che non volevo vedere e perfino il sapore della birra mi diede noia.
Corsi verso la prima carrozza che vidi, tentando invano di non inzupparmi:
“Hixbridge Rd, per favore!”
Gridai al conducente, trovando riparo nell'abitacolo.
Gettai uno sguardo al mio orologio da taschino e notai che si erano fatte le dieci; i lampi ferivano le nubi con squarci imprevedibili e il faro, laggiù su quella montagna di pietre ammassate da non si sa chi, si ergeva imponente sull'oceano.
Con quelle condizioni, nessun uomo si sarebbe mai azzardato a prendere il largo; non solo, se anche ci fosse riuscito, la furia dell'acqua l'avrebbe immediatamente sbalzato fuori dalla bagnarola, affidando il suo corpo ai fondali oceanici.
Molti sono stati trascinati giù nelle profondità: una coppia di pescatori, non molto lontano da qui, si è imbattuta in una creatura innominabile che li ha sradicati dalla loro imbarcazione; è accaduto qualche settimana fa, a Baia di Karp.
Ad ogni modo, la carrozza si fermò ed io mi affrettai a pagare il cocchiere; velocizzai il passo e in pochi istanti fui nuovamente all'asciutto fra le mura della mia umile dimora.
Nonostante le assi di legno scricchiolanti e umide, quella vecchia baracca mi aveva tenuto al sicuro per molti anni: ogni estate eliminavo le tavole marce sostituendole con legni più robusti e questo era l'unico importante lavoro di manutenzione che dovevo svolgere.
Accesi subito due lanterne e diverse candele per scaldare la stanza, diedi un bacio al carapace di aragosta inchiodato alla parete e misi a bollire dell'acqua per una tisana.
Appuntai sul mio diario l'inconsueto incontro di qualche ora prima, specificandone i dettagli e le sensazioni provate: danza, ventriloquo, risate, ribrezzo.
Rimembrai con riluttanza le espressioni del fantoccio, straordinariamente reali tanto da spaventarmi, e riflettei su quale ingegnoso trucco avesse potuto usare lo straniero per crearle.
Qualcuno bussò alla porta.
Guardai di nuovo il mio orologio, incredulo di ricevere visite a ore tarde; 10:12.
Mi alzai dalla sedia e andai ad aprire: nell'oscurità della sera, timidamente interrotta dalla fioca luce dei lampioni ad olio, non vidi anima viva bazzicare nelle strade, tanto meno dinnanzi alla mia baracca.
Scrutai nel buio e conclusi che era stata una raffica di vento a far tremolare la porta d'ingresso; chiusi cercando di non far uscire il caldo accumulatosi all'interno e tornai a sedermi.
Mentre sorseggiavo la tisana, proseguii a scrivere la lettera da spedire alla mia anziana madre che all'epoca viveva nella Seven Sisters's Mansion, una casa di riposo a Providence, nel Rhode Island:
“Cara madre, la vita qui a Westport procede bene; il porto continua a donarci tanto pesce e gli affari sembrano in decollo. Un paio di giorni fa è passata di qui la signora Cresswell, te la ricordi? Suo marito era il guardiano del faro di Lonely Isle, vicino alla costa nord. Seppur un po' invecchiata e nonostante i trascorsi infelici, è sempre gioiosa e piena di energie. Spero tu stia in salute; non appena avrò il biglietto per Providence verrò a trovarti, te lo prometto.
Riguardati,
tuo figlio Robert”
Mia madre non era mai stata amorevole nei miei confronti e di conseguenza non conobbi l'affetto materno come lo conoscevano gli altri, ciò nonostante il bene che le volevo era grande e sapere che viveva in una struttura controllata e ben gestita mi sollevava il morale, malgrado la distanza.
Io e mia sorella, deceduta quattro anni fa per una brutta malattia ai polmoni, avevamo deciso di trasferirla lì sul finire degli anni ottanta dopo aver compreso che le sue condizioni mentali non erano più stabili. Il parere del medico, tale Henry Marsden, ci aveva confermato quanto ipotizzato: nostra madre stava sviluppando la schizofrenia e le aspettative di vita erano alquanto basse.
L'ultima volta che la vidi mi riconobbe a stento, pronunciando il mio nome con difficoltà e squadrandomi dalla testa ai piedi, pretendendo la presenza di un'infermiera tanto non si fidava di me.
Da quel giorno, decisi che le avrei scritto una lettera al mese per tranquillizzarla; non sono sicuro che si ricordi ancora chi sono, né tanto meno se riceva le mie lettere, ma non ho intenzione di fare conti con la mia coscienza quando...verrà il momento.
Terminai la composizione e nel frattempo la tisana si era raffreddata; fuori la bufera non accennava a placarsi e la fiamma delle candele veniva continuamente pizzicata dagli spifferi.
Decisi di coricarmi e quando le lancette del mio orologio coprirono il numero 12, spensi le luminarie.
Dormire non era mai stato il mio forte: non ho mai trascorso una singola notte senza svegliarmi almeno quattro volte, sia per svuotare la vescica, sia per dissetarmi nei periodi afosi dell'estate.
Passò un'ora o poco meno, e mi ritrovai a fissare il vuoto mentre qualche goccia cadeva dal soffitto, infiltrandosi fra le assi del pavimento.
Arrivai al punto da domandarmi se mi stessi immaginando tutto quando scoprii, dopo aver acceso un cero, che non vi era nessuna perdita dal tetto.
D'un tratto, udii un altro rumore, simile a un ticchettio: proveniva dalla cucina e ipotizzai che potesse essere il pentolino dove avevo bollito l'acqua, raffreddandosi.
Intento ad ascoltare, non mi accorsi che la cera mi stava colando sulla mano e per poco non mollai la candela; andai a controllare e tesi l'orecchio ma non notai nulla di anomalo.
La porta d'ingresso tremò altre tre volte e mi dissi che non poteva essere stato ancora il vento: la aprii e mi ritrovai davanti il misterioso ventriloquo. Sobbalzai.
“Signore? Va tutto bene? Siete completamente fradicio!”
“E come potrebbe essere, altrimenti? Vengo dalla bufera, non ricordate?”
Il suo ghigno, colpito dalla luce della candela, mi fece rabbrividire.
“Vi prego, entrate o vi prenderete un malanno!”
L'uomo issò la valigia e la portò dentro con sé;
“Mettetela pure lì, così si asciuga prima.”
Gli indicai un punto vicino alla vecchia stube, che mi preoccupai immediatamente di ravvivare.
“Ma così brucio il signor Newby! Nossignore, concedetemi un attimo!”
Aprì la valigia ed estrasse il fantoccio, poi fece come gli avevo appena consigliato. A riprendere il discorso fu proprio il pupazzo:
“Vi ringraziamo per l'ospitalità. Siamo abituati a girovagare ma speravamo di ricevere accoglienza, visto il tempaccio.”
“Di nulla. Posso offrirvi qualcosa?”
Mi rivolsi a entrambi, tentando di nascondere il disagio.
“Basta così, signore. Per noi è abbastanza. La tempesta durerà ancora a lungo e ciò che cerchiamo è un luogo in cui ripararci.”
Capii che avrei dovuto ospitarli per l'intera nottata e la cosa mi diede il voltastomaco; ingoiai quel boccone amaro e mi sforzai di trattarli con più naturalezza possibile.
“Mi sembra giusto. Per qualsiasi cosa, io sono nella stanza accanto. Potete dormire sulla poltrona; so che non è il massimo, ma non ricevo visite da parecchio...”
Accennai un sorriso, poi feci per tornare a letto quando il fantoccio “parlò” ancora:
“Siete un pescatore?”
Mi voltai e vidi che l'uomo era immobile con lo sguardo fisso in un punto indefinito del pavimento mentre spostava la testa del signor Newby a destra e a sinistra.
“Si, mi guadagno da vivere pescando qui nella baia.”
Risposi, bloccandomi sulla soglia.
“Quel carapace è di dimensioni piuttosto considerevoli...”
“L'ho trovato sul bagnasciuga molti decenni fa, quando ancora non avevo la barba. Mio padre me lo fece tenere: riteneva che qualsiasi dono fatto dal mare avesse sempre uno scopo.”
Il pupazzo continuò a fissarlo mentre lo sconosciuto non mosse un muscolo di un millimetro.
“Come dicevo, se avete bisogno sono qui.”
Non ricevetti nessun cenno di risposta, quindi tornai a coricarmi, consapevole che non avrei chiuso occhio per tutta la notte; l'orologio da taschino segnava l'una e venti.
Se non fosse stato per la pioggia all'esterno, in casa regnava il silenzio: il rumore delle braci che ardevano era insolitamente lieve e la luce pallida del fuoco proiettava ombre tremanti sul pavimento.
Dalla mia posizione, se mi sporgevo un po', potevo vedere lo straniero e il suo fantoccio seduti sulla poltrona; sbirciai e vidi che l'uomo stava dormendo con il volto che guardava verso terra mentre il signor Newby era rimasto a fissare il vecchio carapace sulla parete.
Mi domandai come riuscisse a reggere il pupazzo.
La tempesta sembrò intensificarsi ed io venni invaso da un'angoscia incontenibile, tanto da essere tentato di uscire e rimanere sotto la pioggia fino all'alba, pur di non restare in casa con quell'uomo (e il suo dannato pupazzo).
Ovviamente non mi mossi dalla mia stanza, e il senso di inquietudine aumentò.
Intorno alle 3 dovetti, mio malgrado, svuotare la vescica: il bagno, o meglio la latrina data la povertà di impianti di cui disponevo, si trovava fra la mia camera e il salotto.
Mi alzai tentando invano di non far cigolare il letto, che altro non era che un sottile materasso su uno scheletro di molle arrugginite; infilai le pantofole e in punta di piedi camminai verso il gabinetto.
Mi mossi con estrema cautela e in un paio di minuti fui nuovamente sotto le coperte; diedi un ultimo sguardo ai miei ospiti: erano immobili.
Non so come, ma presi sonno e mi addormentai.
Fu un rumore insistente a svegliarmi: dalla cucina udii un intenso raschiare, quindi mi alzai di soprassalto e andai a controllare.
“Le mie scuse, signore. Noi siamo in piedi da un po' e ne ho approfittato per curarmi la barba.”
Che io ricordi, non avevo visto peluria sul viso di quell'uomo la sera prima; infatti, la sua pelle era tremendamente arrossata e si era tagliato in diversi punti.
Non intervenni e mi limitai solo a qualche domanda di cortesia:
“Avete dormito bene, signori?”
“Divinamente!”
Gracchiò Newby, seduto affianco al suo padrone; questi si stava aiutando con un antico specchio portatile regalatomi da mia sorella anni addietro.
“Gradite qualcosa per colazione?”
Chiesi, sforzandomi di ignorare lo squarcio profondo che si stava aprendo sotto l'occhio destro; non ottenni risposta e dovette intervenire:
“Signore, aspetti che le porto una benda! Sta perdendo molto sangue!”
“Non è necessario, buon uomo. È solo pelle!”
La naturalezza con la quale lo disse mi spiazzò e dopo aver visto come ha reagito la sera prima nella locanda desistetti, passandogli solamente un pezzo di stoffa.
Evidentemente il maltempo non era ancora passato e qualche tuono lontano lo confermò.
“Sono mortificato ma ho delle faccende da sbrigare; mi attendono al porto e non posso assentarmi...”
“Nessuna mortificazione! Siete stato fin troppo gentile a ospitarci!”
Squillò Newby, muovendo le labbra; riprese:
“Ma bando alle ciance; ecco a voi il mio nuovo socio! Ho dovuto prendere in prestito quel vecchio carapace, spero non sia un problema. Sicuramente la burrasca avrà lasciato qualche dono sulla riva, non credete?!
La sua risata fu quanto di più diabolico le mie orecchie avessero mai sentito; spostai lo sguardo sull'uomo e vidi che indossava il carapace come una maschera, forata all'altezza degli occhi.
Io restai impietrito e non riuscii a rispondere; il sangue colava vistosamente sotto quel grottesco camuffamento ma non parve preoccuparsene.
Come se nulla fosse, il ventriloquo issò Newby e lo stese all'interno del bagaglio; poi poco prima che l'uomo lo serrasse, il fantoccio mi domandò:
“Dunque, avete capito chi è il vero pupazzo?”
Ridacchiò ancora mentre uno dei due lembi della valigia lo coprì.
Uscirono dalla mia abitazione ed io restai a fissarli, sbigottito da ciò che era appena successo; li osservai fino a che non li vidi letteralmente scomparire nella lieve pioggia mattutina.
Di lì a un paio d'ore, la tempesta abbandonò la baia di Westport per dirigersi verso l'entroterra; sospirai e decisi di fare l'unica cosa che mi avrebbe rilassato: pescare.
Agguantai la mia canna da pesca, presi gli stivali e un giaccone imbottito e infine mi diressi alla banchina sulla quale mi apposto sempre nelle giornate di mare calmo; sfruttai proprio questo fattore per prendere il largo con la mia bagnarola.
Oltrepassai il faro di Lonely Isle e proseguii; dopo di che, una volta raggiunto il punto giusto, gettai l'amo in acqua.
Restai fuori fino alle prime ore del pomeriggio e con un discreto bottino rientrai.
Ad accogliermi sul bagnasciuga, appena sotto il molo di legno marcescente, intravidi un oggetto rosaceo, dalle tinte semi luccicanti; mi avvicinai incuriosito e non potei fare a meno di sorridere: era un carapace di granchio gigante e mi stupii di quanto assomigliasse a quello che Newby mi aveva sottratto.
Gli diedi una pulita e non potei fare a meno di pensare alle parole di quel misterioso fantoccio:
“Dopotutto, il bagnasciuga custodisce i tesori che non meritano gli abissi...”
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